Wonderful Alice

Il telaio di ginepro bianco

Correvo, senza meta, in mezzo alle vaste file di spighe di grano.

Un’immensa distesa quasi senza fine: alle spalle lasciavo un mondo a cui non appartenevo. Spogliatami anche delle vesti, ora sentivo solo il rumore dei miei piedi nella terra selvatica e il fruscìo delle spighe, mentre il mio respiro era sempre più rapido ma regolare. Nove lunghi campi dorati che portavano alla pace durante il tragitto, alla meta, l’abbandono, nel mio posto segreto.

Distesa a terra urlavo di gioia e vomitavo la rabbia contro il coesistere con un mondo non penetrante con la mia indomabile anima.

Il mio paradiso segreto, dove l’erba fresca e la terra umida proteggeva il mio tesoro; ridevo vittoriosa finché il respiro si calmò. Annusavo i profumi del mio paradiso segreto dove viveva solo azzurro, marrone, verde e oro.

Un sentiero di campagna lunghissimo, le regine dorate erano morbide da giugno a luglio. Fiordalisi e papaveri sposavano di buon auspicio le ventiquattro spighe.

Ma… quelle bacche violacee… dal profumo intenso, non potevano mancare in quel magico paradiso nella sua unicità, originale. Le coccole di ginepro dal profumo aromatico, avvolte da una cera, protette da ruvidi e da vegetazione selvatica, mi facevano da stella polare.

Le osservavo e le annusavo, parevo andare in estesi. Mi fu proibito dal nonno di mangiarle e staccarle dagli arbusti. Solo la legge del nonno era rigorosamente rispettata da me, che volevo penetrare in quella natura, avevo necessità di fare l’amore con quel paradiso segreto.

Il tappetto di camomille e crisantemi dei campi cullavano la mia stanchezza, mentre lo stellato vegliava i miei infiniti proibiti, inquietanti e fantasiose visioni oniriche.

Muri spessi, tegole nel tetto, soffitti alti con travi in legno e pavimenti in pietra rossa naturale, favorita dalla tempra spartana di un tempo: sobrietà orgogliosamente voluta e insidiata perfettamente, come il decantare del mio sesto senso.

Il paradiso segreto si trovava nel lungo sentiero dell’antico contado, a casa del nonno.


Nessun giorno era uguale ad un’altra giornata. Indistinguibile era la colonna sonora della mia cinestesia; ed essa era persistente quale la malinconia, la tristezza ed una poetica, indipendente solitudine.

Nessun mondo era uguale ad un altro mondo. Come una gitana vagavo in dissimili spazi, montavo e smontavo le scene. Pittoresche e variopinte espressioni di ieri e di oggi, senza futuro; ignoti futuristici presagi non mi domiciliano.

Nessuna me era uguale ad un’altra me. Fotografavo ogni temperamento, indole, individualità, qualità ed estro. Estranea a me stessa, fatta a pezzi da una negazione tra corpo e anima per sfuggire alla morte nel centro dell’essenza.

E ballavo, all’improvviso, non sentivo il nulla della vita circostante, fatta di scadenze a secondo… minuto… ora… giorno… mese e anno…; anni impossibili in cui transitavano figure tortuose, assistendo alla scarsa intelligenza umana.


Ballavo libera da me stessa, dal mio non corpo… nel mio paradiso segreto!


L’orto esteso e curatissimo della casa di mio nonno. Tutto perfetto. Un gioco di colori.

Sentivo la musica dei loro sapori. Ballavo e ridevo con i pomodori mentre le patate goffe e sporche criticavano i miei piedi… “magri e difettosi” …

«Piega quei piedi, sei perfetta, vedete lei come fa! … sono magri e perfetti!»

Per le patate erano magri e difettosi; sporchi di terra con bolle lesionate nel troppo ondeggiare armoniosamente.

Una dolce carotina e mi arrampicai nel pino più alto e grosso che ci fosse, mentre fischiavo per radunare gli amici.

Insieme dovevamo girare nel campo per trovare le uova, dopo aver curato i fagiolini, trovato l’insalata e qualche profumo da posare su quella povera gallina a cui aveva tirato il collo mio nonno. Portare il pastone ai maialini.

Era un incanto guardarli divorare quel cibo, era una cosa che io non riuscivo a fare. Mangiare: giace e muore nella mia anima, sterile, ferma come la paura del vuoto tenebroso. Quei porcelli mi resero felice, tuttavia.

Davo voce a quella natura, simile ad un vizio capitale. Quella casa era per me la “godereccia” e la lussuria incontaminata da esseri con scarsa intelligenza. Era la strega e la fata, il potere e la dolcezza, era paura e coraggio. C’era spirito, c’era voce e c’era corpo.

Un quadrato di campo vicino dove si esibivano concerti, balli, divertimenti… la tromba eccentrica e singolare di mio nonno con i suoi gatti, le galline e i suoi cani, spettatori del narciso poeta perso nello specchio della mia stessa viltà, nel rinunciare allo scadenzare dei secondi, minuti, ore, giorni, mesi e anni… a isolare la scarsa intelligenza dell’umanità.

Ogni sera ci raccontava… «L’Aida, bellezza e fascino, eleganza e armonia. Il barbiere di Siviglia, malattia e ossessione, corrode il sentimento puro della libertà nell’amore».

Con la sua sigaretta e la sua strana tromba, la sua forte voce cantava.
«La traviata, tradisce l’amore per se stessi. Tosca combatte per il suo amore fino ad estremizzarne il senso. Nabucco sacrificazione dell’essere umano per il potere. La bohème, la difesa della libera espressione. Il Rigoletto, passione e vendetta. La Cavalleria Rusticana, tradimento…»
Così, almeno, capii…

«… finisce sempre con un morto! … Senza passione non c’è la vita, tesoro! … andiamo a cenare!»


Era appassionato della musica, delle donne, del cibo e del vino. Amava leggere e assorbire più notizie sul mondo possibili.

Amava anche sua moglie, dolce e sorridente, tornava ubriaca di vita dal suo amante… mio nonno le cantava le Opere, mentre a letto la portava.

«Lei felice non è, se non con lui.» Gli occhi lucidi, le lacrime a bagnarne la verità.

Altra commovente Opera della vita, da eseguire senza un finale… variabile, trasgressivo, come un dipinto volutamente non compiuto.